La storia insegna che mentre solo alcuni scrittori lavorano in autonomia chiudendosi nelle proprie stanze, la maggior parte si avvale di editor – e diventa inevitabilmente dipendente da questa figura professionale che è un lettore speciale dell’opera, la prepara ad affrontare altri lettori, propone suggerimenti migliorativi sul testo. Eppure il rapporto tra scrittori ed editor è da sempre molto discusso.
La tradizione editoriale è per l’abnegazione degli editor. Il loro contributo non è particolarmente enfatizzato – un cenno nella prefazione o un ringraziamento da parte dell’autore al lancio del libro e nulla più – mentre nell’immaginario comune, gli editor sono fantasmi, condivisori occulti dei segreti degli scrittori, cospiratori al trono. E tantissimi sono gli scrittori che hanno associato all’editing delle proprie opere immagini non proprio positive.
Henry James lo accostava al lavoro del macellaio, D.H. Lawrence al simbolico taglio del proprio naso con un paio di forbici, come se l’opera fosse una sorta di appendice fisica dell’autore (in effetti può essere considerata tale).
Pochi però hanno parlato di questa fase come qualcosa di positivo, in grado di stimolare la creatività dello scrittore e far crescere ciò che in potenza già esisteva dentro di lui.
Quando si tratta del rapporto tra editor e scrittore, se ne parla solo nel caso in cui l’esperienza sia stata tutto sommato negativa, perché il primo ha prevalso, sbagliando, sul secondo, in maniera irrevocabile. Pensiamo a Gordon Lish e Raymond Carver.
Dietro a queste immagini ostili c’è il mito romantico dello scrittore come “genio solitario” che scrive le proprie opere sull’onda di un impeto creativo improvviso e incorruttibile. L’editor diviene così una figura aliena, distruttiva del lavoro originario, un sicario con la matita rossa. È vero che alcuni editor si sono lasciati prendere la mano e hanno corretto eccessivamente i testi, ma c’è anche chi esegue il proprio lavoro in maniera rispettosa e acuta, trovando un equilibrio.
Un primo passo per comprendere il lavoro dell’editor e dell’autore nella fase di revisione di un testo può essere leggere un commento di F. S. Fitzgerald, autore del Grande Gatsby, scrittore che ha sempre lavorato con solerzia di riscrittura.
[…] Qualcuno che citerò con molta imprecisione ha detto una volta: «Uno scrittore che sia riuscito a calare il proprio sguardo ancor più in profondità, nella propria anima o in quella degli altri, scoprendovi, grazie al suo talento, cose che nessuno aveva mai visto o osato raccontare, ha ampliato l’orizzonte della vita umana». Ecco perché un giovane scrittore, una volta giunto al bivio di ciò che è da dire e ciò che è da tacere riguardo al sentimento, è tentato di lasciarsi guidare verso quanto è conosciuto, ammirato e comunemente accettato, poiché sente dentro di sé una voce che gli sussurra: “Nessuno sarà toccato da questa emozione, a nessuno interesserà questa azione irrilevante: sono cose mie, non hanno alcun valore universale; forse non hanno nemmeno senso”. Ma se il talento dello scrittore è autentico, o se la fortuna è con lui (a seconda dei punti di vista), un’altra voce allo stesso bivio lo incita a registrare quelle cose apparentemente insolite e insignificanti; in esse, e in null’altro, risiede il suo stile, la sua personalità, insomma, tutta la sua natura di artista.
Ciò che ha pensato di buttar via o, troppo spesso, ciò che ha già buttato via era l’unica buona qualità concessagli.
Gertrude Stein stava cercando di esprimere un pensiero analogo quando – parlando della vita più che della letteratura – disse che lottiamo contro la maggior parte delle nostre qualità di spicco finché non arriviamo verso i quarant’anni, e allora, troppo tardi, scopriamo che esse costituivano la nostra reale personalità. Erano la parte più profonda del nostro io, che avremmo dovuto accarezzare e nutrire. D’altra parte quanto precede è inesatto, e si potrebbe essere fuorviati da tutto ciò che ho detto, nello stesso senso in cui lo sono stati Saroyan e il compianto Tom Wolfe pensando che la scrittura debba essere la coltivazione di ogni erbaccia trovata in giardino. È a questo punto che interviene il talento, a distinguere tra i fiori comuni che ciascuno conosce e che non sono particolarmente attraenti, le erbacce ribelli e ingannevoli, e quel minuscolo, timido, spesso invisibile fiore nascosto in un angolo: quel fiore, coltivato alla Burbank, è tutto ciò che sarà valsa la pena di far crescere, sia che rimanga piccino sia che raggiunga l’altezza di una quercia.
Per approfondire il lavoro dell’editor, e ancor di più la relazione di F. S. Fitzgerald con il suo editor, vi consigliamo la lettura di Max Perkins. L’editor dei geni di Andrew Scott Berg (Elliot, 2013) e la visione del film Genius.

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