Una cosa utile da fare, quando i tempi di lavoro non sono generosi (e non lo sono quasi mai) è dividere la traduzione del libro in cartelle – un tot di cartelle al giorno – e poi valutare quanti giorni si hanno a disposizione per la traduzione, per la revisione, per l’impaginazione, per la correzione di bozze, per l’inserimento delle correzioni.
Per quanto se ne discuta in fisica, il tempo non è sempre relativo: i giorni però sono sempre pochi, nonostante i calcoli.
Si tratta di un buon modo di lavorare, soprattutto se forze esterne spingono per la stampa, ma non è necessariamente il modo migliore.
Dice Susanna Basso, valentissima traduttrice, che “l’arma del traduttore è l’esitazione”. Potremmo allargare quest’idea anche alla scrittura: “l’arma dello scrittore è l’esitazione”.
Alla domanda “da cosa dipende una buona resa del testo?”, Susanna Basso risponde così:
[…] Per tradurre è necessario amare generosamente le parole, come quando bambini, le abbiamo acquisite e introdotte nella prassi della nostra vita di ogni giorno. Quelle della nostra lingua, naturalmente, ma direi proprio, e in assoluto, la meraviglia della lingua nel suo sforzo mimetico di tradurre ogni cosa. Se è possibile nominare il mondo, deve pur esserci un modo per nominare un nome, giusto? Non che sia facile, anzi, può volerci tutto quello che è nella domanda: studio, letture, e una certa dote innata. Ma quest’ultima è nostra per diritto di nascita: siamo stati tutti creature nominanti e il nostro vocabolario originale, quello che dal silenzio attento dell’infanzia ci ha portati a lallare e infine a pronunciare un suono che era anche la cosa nominata, è stato quasi sempre registrato da chi ci amava come formidabile e perfetto.
Una buona resa del testo, credo dipenda in larga misura dal nostro instancabile stupore per le lingue. […]
Alla stessa domanda Roberto Serrai ha risposto:
[…] Un testo è sempre un meccanismo che produce senso. Il traduttore deve capire come funziona, smontarlo, e poi rimontarlo nella sua lingua madre. Senza cambiarlo, senza metterci qualcosa di suo che prima non c’era (a parte la sensibilità, ovvio), senza lasciare fuori più dell’inevitabile. […] Le letture sono, queste sì, fondamentali. Bisogna leggere di tutto, e di continuo. Una frase a effetto che uso spesso (con gli studenti) è «da Fabio Volo a Wittgenstein». Gli studenti reagiscono con facce schifate ma bisogna fare così, e io lo faccio. Anche perché può capitare di lavorare su testi che non ci piacciono, o su testi francamente brutti, o che per snobismo neanche prenderemmo in mano. Però dal nostro punto di vista, operaio e di servizio, vanno trattati con lo stesso rispetto di un capolavoro della letteratura mondiale. Essere lettori onnivori, dunque, oltre a mantenersi allenati nella pratica di certi lessici e registri linguistici (e qui entra in gioco la conoscenza della propria lingua madre, che non bisogna mai smettere di coltivare – e lo si fa non solo leggendo, ma anche ascoltando e scrivendo), previene brutte sorprese, ed evita di tradurre Fabio Volo come Wittgenstein (o viceversa). […]
Se ti interessano l’instancabile stupore per le lingue e l’arte della buona traduzione
