Piera Ventre: la scrittura è la mia casa

Piera Ventre è autrice di romanzi; ha pubblicato diversi suoi titoli con Neri Pozza. Palazzokimbo (2016) è stato finalista alla seconda edizione del Premio Neri Pozza e ha vinto il Premio Pavoncella. Sette opere di misericordia (2020) è stato selezionato per il Premio Strega 2020 ed è stato vincitore del Premio Procida – Isola di Arturo – Elsa Morante. Le stanze del tempo (2021) è stato finalista al Premio I Fiori Blu, al Premio Settembrini e al Premio Letterario Chianti.

intervista di Alice Corradini

Buongiorno Piera, nei tuoi libri ricorre il concetto di casa, mostri spesso la relazione tra il luogo e le persone che lo vivono. Da dove nasce questo interesse e qual è il rapporto tra te e la “casa”?

Sono affascinata dalle case e dal modo in cui vengono abitate e vissute. Credo che la casa sia una sorta di proiezione e di estensione di coloro che ci vivono, mai uno spazio franco, e perfino nell’assenza, talvolta, di elementi personalizzanti, credo raccontino qualcosa di chi ci vive, o lo nascondano. Collocare una storia in uno spazio significa far diventare personaggio quello spazio. Sono convinta che i luoghi abbiano una sorta di memoria, oltretutto, e che conservino le tracce dei passaggi, perciò amo molto le case che hanno vissuto, che serbano o celano – e perciò bisogna cercare e svelare ciò che non è così palese al primo sguardo.

Come nascono le tue storie? Hai qualche aneddoto che vorresti condividere con noi?

È difficile raccontare la genesi delle storie che scrivo. Lavoro molto per suggestioni e in maniera – dapprincipio – spesso irrazionale. Se un’idea è pregnante, e di un qualche interesse per me, permane, non si sfilaccia e magari principia con un particolare semplice – una visione, una parola, una sensazione, un ricordo. Può passare anche molto tempo prima che diventi corpo, ma l’unica cosa che so è che devo sentirla lavorare in profondità. In genere, quando poi mi siedo al tavolo, so che è arrivato il momento di metterci mano. Ma non so mai quando avverrà. Anche dalle storie mi lascio a lungo abitare prima che diventino più chiare.

Il romanzo più faticoso a cui hai lavorato?

Non mi sentirei di usare l’aggettivo “faticoso” rispetto alla stesura di un romanzo. La scrittura è – per restare in tema – la mia casa, e non vorrei vivere in un luogo che mi costa sforzo. Posso comunque dire che ogni romanzo, ogni racconto mi generano incertezze e domande. Principalmente sul linguaggio e sullo stile, che sono gli aspetti che maggiormente mi interessano. Ma non parlerei di fatica, quanto di ricerca, di interrogazione. Quindi, a suo modo, ogni mio libro mi ha fatto porre delle domande sull’esattezza di quanto avrei voluto raccontare.

Le tue letture preferite? Ci sono scrittori o scrittrici che ami e/o a cui ti ispiri?

Fino a una decina d’anni fa ho letto di tutto e in un modo piuttosto anarchico. Poi mi sono resa conto che a mano a mano che passa il tempo divento più esigente e più selettiva. Cerco, però, di non ispirarmi ad altri scrittori o scrittrici tentando di trovare una voce che sia mia. A ogni modo, ho smisurato amore per molti di loro. Una su tutte, Anna Maria Ortese, che è stata una delle scrittrici più lette durante la mia giovinezza.

Come è/come è stato il rapporto tra te e il tuo editor?

Essendo al quinto libro ho lavorato con persone diverse e con diversi approcci. Non ho mai avuto problemi di relazione e di interlocuzione. L’editing sul mio primo romanzo è stata un’esperienza interessante: ritornare sul testo e discuterne con qualcuno in modo professionale. Ho appreso molte cose durante il primo editing. Adesso, la revisione è diventata un processo al quale mi auto-sottopongo, prima di tutto – intendendo con questo un auto-editing parecchio severo – e devo dire che ho acquisito una certa pratica. I miei testi ultimati, una volta che ho deciso di presentarli, non hanno avuto quasi mai necessità di grandi interventi né stilistici né strutturali.

Che qualità dovrebbe avere un buon editor, secondo te?

Un buon editor è colei, o colui, che rispetta la voce dell’autore e soprattutto ne comprende appieno il progetto letterario. Un buon editor è colei, o colui, che non pone la “spendibilità” e la “vendibilità” di un testo – e quindi tende a tener d’occhio più il mercato che l’opera – come priorità a scapito della complessità e della ricerca.

Quanto è cambiata la tua scrittura di romanzo in romanzo? E come hai vissuto la sua evoluzione?

Ho l’impressione che non sia molto cambiata “di romanzo in romanzo”. Benché ogni libro abbia richiesto un certo tipo di linguaggio, penso d’avere in testa, mentre scrivo, una sorta di “partitura” dalla quale non mi discosto mai. È un’osservazione che mi viene fatta anche dagli addetti ai lavori, quindi mi tocca crederci.

In Italia la lettura arranca e la scrittura non viene ancora considerata una vera professione. Secondo te, quale potrebbe essere una (se non la) soluzione?

Questo è un argomento spinoso. È difficile pensare che l’amore per la lettura possa venir trasfuso per indottrinamento superficiale. Per lavoro, spesso ho accolto le lamentele dei genitori che raccontavano che i loro figli non leggevano. Ma essi stessi erano i primi a non farlo mai. L’amore per la lettura, alla fine, è come l’amore per qualsiasi altra cosa e forse l’unica via per la quale potrebbe transitare è quella dell’esempio e della cura. Ma non ho risposte né proposte. In quanto alla scrittura è vero che spesso non viene considerata come una professione. Ma lo è? Mi chiedo, cioè, come si potrebbe vivere di sola scrittura? Ci riescono soltanto coloro che hanno una produzione importante – un libro all’anno, a volte perfino due o tre – e/o che vendono moltissimo, e grazie a questo ottengono, poi, altre collaborazioni. Ma siamo sicuri che si possa scrivere sempre alla stessa altezza con una frequenza tanto ravvicinata? E, soprattutto, con la stessa libertà e la stessa necessità?

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