Piera Ventre: la scrittura è la mia casa

Piera Ventre è autrice di romanzi; ha pubblicato diversi suoi titoli con Neri Pozza. Palazzokimbo (2016) è stato finalista alla seconda edizione del Premio Neri Pozza e ha vinto il Premio Pavoncella. Sette opere di misericordia (2020) è stato selezionato per il Premio Strega 2020 ed è stato vincitore del Premio Procida – Isola di Arturo – Elsa Morante. Le stanze del tempo (2021) è stato finalista al Premio I Fiori Blu, al Premio Settembrini e al Premio Letterario Chianti.

intervista di Alice Corradini

Buongiorno Piera, nei tuoi libri ricorre il concetto di casa, mostri spesso la relazione tra il luogo e le persone che lo vivono. Da dove nasce questo interesse e qual è il rapporto tra te e la “casa”?

Sono affascinata dalle case e dal modo in cui vengono abitate e vissute. Credo che la casa sia una sorta di proiezione e di estensione di coloro che ci vivono, mai uno spazio franco, e perfino nell’assenza, talvolta, di elementi personalizzanti, credo raccontino qualcosa di chi ci vive, o lo nascondano. Collocare una storia in uno spazio significa far diventare personaggio quello spazio. Sono convinta che i luoghi abbiano una sorta di memoria, oltretutto, e che conservino le tracce dei passaggi, perciò amo molto le case che hanno vissuto, che serbano o celano – e perciò bisogna cercare e svelare ciò che non è così palese al primo sguardo.

Come nascono le tue storie? Hai qualche aneddoto che vorresti condividere con noi?

È difficile raccontare la genesi delle storie che scrivo. Lavoro molto per suggestioni e in maniera – dapprincipio – spesso irrazionale. Se un’idea è pregnante, e di un qualche interesse per me, permane, non si sfilaccia e magari principia con un particolare semplice – una visione, una parola, una sensazione, un ricordo. Può passare anche molto tempo prima che diventi corpo, ma l’unica cosa che so è che devo sentirla lavorare in profondità. In genere, quando poi mi siedo al tavolo, so che è arrivato il momento di metterci mano. Ma non so mai quando avverrà. Anche dalle storie mi lascio a lungo abitare prima che diventino più chiare.

Il romanzo più faticoso a cui hai lavorato?

Non mi sentirei di usare l’aggettivo “faticoso” rispetto alla stesura di un romanzo. La scrittura è – per restare in tema – la mia casa, e non vorrei vivere in un luogo che mi costa sforzo. Posso comunque dire che ogni romanzo, ogni racconto mi generano incertezze e domande. Principalmente sul linguaggio e sullo stile, che sono gli aspetti che maggiormente mi interessano. Ma non parlerei di fatica, quanto di ricerca, di interrogazione. Quindi, a suo modo, ogni mio libro mi ha fatto porre delle domande sull’esattezza di quanto avrei voluto raccontare.

Le tue letture preferite? Ci sono scrittori o scrittrici che ami e/o a cui ti ispiri?

Fino a una decina d’anni fa ho letto di tutto e in un modo piuttosto anarchico. Poi mi sono resa conto che a mano a mano che passa il tempo divento più esigente e più selettiva. Cerco, però, di non ispirarmi ad altri scrittori o scrittrici tentando di trovare una voce che sia mia. A ogni modo, ho smisurato amore per molti di loro. Una su tutte, Anna Maria Ortese, che è stata una delle scrittrici più lette durante la mia giovinezza.

Come è/come è stato il rapporto tra te e il tuo editor?

Essendo al quinto libro ho lavorato con persone diverse e con diversi approcci. Non ho mai avuto problemi di relazione e di interlocuzione. L’editing sul mio primo romanzo è stata un’esperienza interessante: ritornare sul testo e discuterne con qualcuno in modo professionale. Ho appreso molte cose durante il primo editing. Adesso, la revisione è diventata un processo al quale mi auto-sottopongo, prima di tutto – intendendo con questo un auto-editing parecchio severo – e devo dire che ho acquisito una certa pratica. I miei testi ultimati, una volta che ho deciso di presentarli, non hanno avuto quasi mai necessità di grandi interventi né stilistici né strutturali.

Che qualità dovrebbe avere un buon editor, secondo te?

Un buon editor è colei, o colui, che rispetta la voce dell’autore e soprattutto ne comprende appieno il progetto letterario. Un buon editor è colei, o colui, che non pone la “spendibilità” e la “vendibilità” di un testo – e quindi tende a tener d’occhio più il mercato che l’opera – come priorità a scapito della complessità e della ricerca.

Quanto è cambiata la tua scrittura di romanzo in romanzo? E come hai vissuto la sua evoluzione?

Ho l’impressione che non sia molto cambiata “di romanzo in romanzo”. Benché ogni libro abbia richiesto un certo tipo di linguaggio, penso d’avere in testa, mentre scrivo, una sorta di “partitura” dalla quale non mi discosto mai. È un’osservazione che mi viene fatta anche dagli addetti ai lavori, quindi mi tocca crederci.

In Italia la lettura arranca e la scrittura non viene ancora considerata una vera professione. Secondo te, quale potrebbe essere una (se non la) soluzione?

Questo è un argomento spinoso. È difficile pensare che l’amore per la lettura possa venir trasfuso per indottrinamento superficiale. Per lavoro, spesso ho accolto le lamentele dei genitori che raccontavano che i loro figli non leggevano. Ma essi stessi erano i primi a non farlo mai. L’amore per la lettura, alla fine, è come l’amore per qualsiasi altra cosa e forse l’unica via per la quale potrebbe transitare è quella dell’esempio e della cura. Ma non ho risposte né proposte. In quanto alla scrittura è vero che spesso non viene considerata come una professione. Ma lo è? Mi chiedo, cioè, come si potrebbe vivere di sola scrittura? Ci riescono soltanto coloro che hanno una produzione importante – un libro all’anno, a volte perfino due o tre – e/o che vendono moltissimo, e grazie a questo ottengono, poi, altre collaborazioni. Ma siamo sicuri che si possa scrivere sempre alla stessa altezza con una frequenza tanto ravvicinata? E, soprattutto, con la stessa libertà e la stessa necessità?

Intervista a Cecilia Nono, editor e correttrice di bozze

intervista di Alice Corradini

Buongiorno Cecilia, benvenuta. Iniziamo con una domanda relativa alla tua formazione. Quando e come hai capito che l’editoria era la tua strada?

Poco dopo la laurea sono stata selezionata per uno stage presso una piccola casa editrice di saggistica. Non avevo ancora un’idea precisa di cosa avrei fatto “da grande”, se devo essere onesta, ma ho deciso di provare. Mi sono immediatamente innamorata dell’editoria, e tuttora lo sono.

Quali sono stati i tuoi primi passi per realizzarti?

Il mio primo posto di lavoro è stato davvero formativo, ma ho presto sentito il bisogno di consolidare le conoscenze teoriche: il mio primo passo è stato frequentare un master di sei mesi. Anni dopo avrei lasciato l’ufficio e aperto la Partita Iva per creare la mia squadra di lavoro indipendente.

Sei editor, correttrice di bozze e copywriter: di cosa preferisci occuparti?

Amo lavorare soprattutto sulla saggistica, occupandomi dell’editing, della correzione di bozze e talvolta del ghostwriting. I saggi richiedono il tipo di impegno creativo che più mi piace: unire il controllo meccanico e ossessivo a una visione critica globale.

Quanto è cambiata la tua professione nel giro di vent’anni?

Sono cambiate molte procedure: ho fatto in tempo a lavorare sulle cianografiche cartacee che puzzavano di ammoniaca (un oggetto che i redattori di oggi non hanno forse mai visto); ho considerato normale spedire bozze stampate via posta, in busta gialla, e persino via fax.

Inoltre, rispetto a quando ho iniziato, il ruolo di correttrice è diventato più fluido: dobbiamo saper gestire un impaginato, trattare un testo digitale, sconfinare insomma in professionalità parallele.

A me per fortuna interessa molto stare al passo con le tecnologie che sono al servizio del lavoro, e trovo importantissimo il fatto che ne venga insegnato l’uso.

Quanto sono importanti i corsi per redattori? Quando ricevi candidature per eventuali collaborazioni, cosa cerchi nel professionista?

Il nostro mestiere deve essere appreso, esattamente come gli altri: sono convinta che l’esperienza sia una maestra utilissima, ma che debba essere preceduta o accompagnata da una formazione guidata. Si tratta di imparare non solo come si corregge una bozza, ma come si comunicano le modifiche in modo da agevolare il lavoro altrui, come si scelgono gli strumenti adatti al singolo caso, come si gestisce il tempo, come prevenire problemi apparentemente invisibili. Il confronto con chi ne sa più di te in un contesto protetto come la lezione è secondo me un grande valore aggiunto.

Inoltre, fra una persona senza esperienza né formazione e una che non ha ancora esperienza, ma si è impegnata a formarsi e dimostra dunque un reale desiderio di intraprendere questa professione, assumerei la seconda…

Quando ricevo una candidatura generalmente la classifico in base al grado di esperienza, ma anche alla direzione che la persona sembra avere: mi piace riuscire a immaginare per quale tipo di testi e di incarichi sia più adatta.

Come definiresti in due righe il lavoro del correttore di bozze?

Come quello del bassista di una band, categoria alla quale non a caso appartengo: è l’elemento che dà struttura al brano, tiene insieme sia il tempo che la linea melodica, ma raramente il pubblico ne nota l’esistenza.

Essere un redattore con partita iva non è semplice al giorno d’oggi. Secondo te, quali sono gli ingredienti per riuscire a vivere di questa professione?

Occorre molta consapevolezza: bisogna costruire il proprio valore professionale, promuoverlo, difenderlo in modo che sia riconosciuto e apprezzato, e dunque rispettato e pagato. Il che significa anche saper rifiutare, a volte, un incarico che ha modalità nocive. Non è sempre facile, ed è bene saperlo.

Che consigli daresti ai redattori in erba affinché non si imbattano in datori di lavoro poco professionali?

Purtroppo può succedere di avere esperienze negative, anche io ne ho avute. Talvolta il problema sono i soldi, o l’assenza di un contratto per i lavori di più ampio respiro. Trovo che il pericolo più sfuggente stia in realtà nelle modalità organizzative: un committente disorganizzato o sprovveduto rischia di caricare sul redattore, che sta a valle, le difficoltà che dovrebbero essere risolte a monte. Pretendere chiarezza sul calendario delle consegne, il numero delle cartelle e i dettagli dell’incarico è un buon modo di proteggersi.

Le ritraduzioni dei classici

In questi anni vediamo un gran numero di nuove traduzioni di classici che ovviamente erano già in commercio.

Ri-tradurre è un lavoro che ha solo minimante a che vedere con il correggere gli errori, per quanto qualche errore ci possa essere anche nelle migliori traduzioni.
È piuttosto un lavoro che ha a che fare con:

  • il rendere la lingua del testo originale in una lingua italiana più prossima alla nostra (quanti autori ci sembrano “vecchi” perché sono “vecchie” le traduzioni? Quanti autori hanno ancora addosso l’italiano degli anni Cinquanta?);
  • il pulire la traduzione da travisamenti ideologici (per esempio, l’italiano macchiettistico affibbiato alle persone di colore nella prima traduzione di Via col vento);
  • il vedere meglio il testo, attraverso gli ultimi studi e una conoscenza spesso nuova o rinnovata dell’autore.

Ecco cosa scrive Simone Barillari, uno dei docenti dei nostri corsi, a proposito di Conrad e della lettura che ha fatto per arrivare a capire il significato più profondo di Cuore di tenebra (prima ancora che la lingua di Cuore di tenebra):

Si può allora dedurre dalla comparazione di questi avvenimenti una segreta legge enunciata in Cuore di tenebra: tutti quelli che hanno restraint (Marlow, il Direttore, il giovane russo, i cannibali) sopravvivono, tutti quelli che non hanno restraint (Kurtz, il timoniere) muoiono, come a dire che quegli impulsi, che sono necessari a vivere, portano alla morte chi non li controlla; ma anche che chi muore non riuscendo a controllarli ha vissuto più da uomo di chi vive controllandoli grazie ad altri.
Conrad costruisce l’intero arco del libro intorno a quell’idea portante posta al centro come una chiave di volta, come se la prima metà della storia fosse un’unica, imponente domanda, «RestraintWhat possible restraint?» e la seconda metà fosse un tentativo tenace di capire che cosa rende uomini, di definire quell’indefinibile something restraining, di chiarire, attraverso una serie di esempi fatti quasi a sé stesso, quella forza oscura dell’agire umano, senza mai giungere a una risposta che non sia nell’intero arco del ragionamento. Il termine restraint, nel testo, è come la voce di un dizionario spiegata solo attraverso esempi d’uso, e prende a poco a poco una nuova accezione rispetto a quella originaria: il restraint dell’Inghilterra puritana parla solo di «ritegno», di «pudore», di «vergogna», il restraint di Conrad, nel 1899, profetizza quello che Freud chiamerà, 27 anni dopo, «freno inibitore» (Hemmung), ed è come se in Cuore di tenebra, in questo «estenuante pellegrinaggio tra presagi di incubi» scritto negli stessi giorni dell’Interpretazione dei sogni, in questo Pilgrim’s Progress for our pessimistic and psychologizing age, «un Pilgrim’s Progress per la nostra epoca pessimista e psicologizzante» (Guerard 1958), l’uomo fosse sceso per l’ultima volta negli sconosciuti e tormentati inferi della sua anima prima che quella sterminata terra incognita fosse esplorata dai padri della psicanalisi, prima che la Stazione Esterna, la Stazione Centrale e la Stazione Interna fossero rinominate, come città occupate, SuperIo, Io ed Es, prima che le parole gridate dal viandante lungo il viaggio, i various lusts di Kurtz, il suo appellativo di Shadow, diventassero i termini di una nuova scienza: il Lust di Freud, l’Ombra di Jung.
Se questo è vero, se il significato di restraint è qualcosa che si fa più preciso a ogni nuova occorrenza, allora la traduzione di restraint non può che ricorrere a un unico termine (nel mio caso «freno») che si ripeta sotto forma di sostantivo con restraint, di verbo con to restrain e di aggettivo con unrestrained, perché la ripetizione scolpisce il senso del termine. E se la parola restraint ha  questa forza esplicativa, questa sorta di capacità aperitiva del testo come se ne fosse la chiave, allora si dovrà sottolinearne l’importanza stabilendo una corrispondenza biunivoca tra quel termine e il termine con cui è tradotto: non solo ogni volta che nel testo compare restraint ci dovrà essere in traduzione il termine scelto, ma ogni volta che quel termine compare in traduzione ci dovrà essere restraint nel testo, e non si potrà tradurre Marlow che dice «I held my tongue», per esempio, con «tenni a freno la lingua», come pure verrebbe naturale.
Intorno a restraint altri termini tra cui heartdarkknowmonsterinvade si dipanano come fili di senso del tessuto testuale, e devono essere seguiti a uno a uno e intrecciati con altri, fino a lasciar intravedere, sotto la trama romanzesca, l’ordito filosofico, perché si può fare filosofia, disse una volta Malraux parlando di Shakespeare, non solo costruendo un sistema ma anche mostrando un mondo, e una traduzione, allora, deve avere qualcosa di un mappamondo con nomi e meridiani.
Tradurre un’opera mondo, rispetto a tradurre un’opera, significa tentare di rappresentare non solo una prosa ma un pensiero, non solo una finzione ma una filosofia.

Torneremo presto su questo discorso. Nel frattempo, ti proponiamo un esercizio: prova a prendere due traduzioni di uno stesso classico e a confrontarle tra loro. Cosa ne pensi?

[Se non sai che testo prendere, ti consigliamo di confrontare due tra le molte – circa sedici – traduzioni di Moby Dick.]

Gli errori di un traduttore

Quali sono gli errori che può compiere un traduttore, e secondo quale grado di gravità?

A noi piace molto quello che dice Nabokov, che ha tradotto in inglese alcuni classici della letteratura russa. (I bold sono nostri.)

Si possono distinguere tre diversi gradi di malvagità nel bizzarro mondo della trasmigrazione verbale.
Il primo, di minore importanza, comprende gli errori ovvi dovuti a ignoranza o a conoscenza ingannevole. Si tratta di semplice fragilità umana e sono quindi giustificabili.
Il successivo passo verso l’Inferno lo compie il traduttore che tralascia intenzionalmente parole o passi che non si preoccupa di comprendere o che potrebbero apparire oscuri oppure osceni a un pubblico di cui non si è fatto che un’idea approssimativa; accetta senza il minimo scrupolo l’espressione vacua del suo dizionario; o sottomette l’erudizione all’eleganza: è pronto a saperne meno del suo autore ma allo stesso tempo pensa di saperne di più.
Il terzo, nonché il peggior grado di turpitudine, lo si raggiunge quando un capolavoro viene appiattito e levigato, ignobilmente abbellito, per adeguarsi alle opinioni e ai pregiudizi di un determinato pubblico. Questo è un crimine, da punire con la gogna come veniva fatto con i falsari ai tempi delle scarpe con le fibbie.

Gogna a parte, i requisiti che il traduttore deve possedere per produrre una versione ideale di un capolavoro sono molti: deve avere lo stesso talento, o, quanto meno, lo stesso tipo di talento dell’autore che ha scelto. In secondo luogo, deve conoscere a fondo le due nazioni e le due lingue e sapere perfettamente tutti i dettagli relativi allo stile e alle tecniche del suo autore; deve inoltre essere consapevole del contesto sociale delle parole, dei loro usi, della loro storia e di come vengono associate nel periodo.

Quanto detto ci porta a un ulteriore punto: oltre ad avere talento ed essere preparato, il traduttore deve possedere il dono del mimetismo ed essere in grado di recitare, per così dire, la parte dell’autore impersonando i suoi vizi stilistici e di linguaggio, i suoi modi e il suo pensiero, con il massimo grado di verosimiglianza.

O, per utilizzare anche le parole di Burgess: “La traduzione non è soltanto questione di parole: è questione di rendere intelligibile un’intera cultura.”

Se vuoi imparare a farlo: www.scuolascrivere.com.

I tempi di lavoro

Una cosa utile da fare, quando i tempi di lavoro non sono generosi (e non lo sono quasi mai) è dividere la traduzione del libro in cartelle – un tot di cartelle al giorno – e poi valutare quanti giorni si hanno a disposizione per la traduzione, per la revisione, per l’impaginazione, per la correzione di bozze, per l’inserimento delle correzioni.

Per quanto se ne discuta in fisica, il tempo non è sempre relativo: i giorni però sono sempre pochi, nonostante i calcoli.
Si tratta di un buon modo di lavorare, soprattutto se forze esterne spingono per la stampa, ma non è necessariamente il modo migliore.

Dice Susanna Basso, valentissima traduttrice, che “l’arma del traduttore è l’esitazione”. Potremmo allargare quest’idea anche alla scrittura: “l’arma dello scrittore è l’esitazione”.

Alla domanda “da cosa dipende una buona resa del testo?”, Susanna Basso risponde così:

[…] Per tradurre è necessario amare generosamente le parole, come quando bambini, le abbiamo acquisite e introdotte nella prassi della nostra vita di ogni giorno. Quelle della nostra lingua, naturalmente, ma direi proprio, e in assoluto, la meraviglia della lingua nel suo sforzo mimetico di tradurre ogni cosa. Se è possibile nominare il mondo, deve pur esserci un modo per nominare un nome, giusto? Non che sia facile, anzi, può volerci tutto quello che è nella domanda: studio, letture, e una certa dote innata. Ma quest’ultima è nostra per diritto di nascita: siamo stati tutti creature nominanti e il nostro vocabolario originale, quello che dal silenzio attento dell’infanzia ci ha portati a lallare e infine a pronunciare un suono che era anche la cosa nominata, è stato quasi sempre registrato da chi ci amava come formidabile e perfetto.
Una buona resa del testo, credo dipenda in larga misura dal nostro instancabile stupore per le lingue. […]

Alla stessa domanda Roberto Serrai ha risposto:


[…] Un testo è sempre un meccanismo che produce senso. Il traduttore deve capire come funziona, smontarlo, e poi rimontarlo nella sua lingua madre. Senza cambiarlo, senza metterci qualcosa di suo che prima non c’era (a parte la sensibilità, ovvio), senza lasciare fuori più dell’inevitabile. […] Le letture sono, queste sì, fondamentali. Bisogna leggere di tutto, e di continuo. Una frase a effetto che uso spesso (con gli studenti) è «da Fabio Volo a Wittgenstein». Gli studenti reagiscono con facce schifate ma bisogna fare così, e io lo faccio. Anche perché può capitare di lavorare su testi che non ci piacciono, o su testi francamente brutti, o che per snobismo neanche prenderemmo in mano. Però dal nostro punto di vista, operaio e di servizio, vanno trattati con lo stesso rispetto di un capolavoro della letteratura mondiale. Essere lettori onnivori, dunque, oltre a mantenersi allenati nella pratica di certi lessici e registri linguistici (e qui entra in gioco la conoscenza della propria lingua madre, che non bisogna mai smettere di coltivare – e lo si fa non solo leggendo, ma anche ascoltando e scrivendo), previene brutte sorprese, ed evita di tradurre Fabio Volo come Wittgenstein (o viceversa). […]

Se ti interessano l’instancabile stupore per le lingue e l’arte della buona traduzione

Gli artigiani del lago Turkana

Vicino al lago Turkana, in Kenia, c’è un sito archeologico dove sono state rinvenute numerose pietre scheggiate a mo’ di lame; ma anche strumenti utilizzati come martelli e incudini: i reperti di Turkana sono i più antichi utensili in pietra rinvenuti finora ma, soprattutto, sono stratificati in modo da farci capire che in quel sito hanno lavorato più artigiani, per centinaia, migliaia di anni.

Questo è il primo segno di una cultura umana: non scheggiare le pietre (quello lo sanno fare un sacco di altre specie animali), ma tramandare il sapere.

Proprio perché per tramandare il sapere è fondamentale comunicare è probabilmente in questo periodo che inizia a svilupparsi il linguaggio e il pensiero simbolico.

Sono le nostre idee che ci hanno resi ciò che siamo. La nostra immaginazione plasma il nostro essere. Ed è quello che ci distingue da ogni altra creatura del pianeta.

A tal proposito – prima degli studi sull’evoluzione umana e della scoperta degli artigiani del lago Turkana – a lungo, nella storia dell’umanità, si è pensato che il sapere venisse dagli dèi: l’uomo non domina il fuoco grazie al suo intelletto (e a millenni di pratica tramandata), ma perché Prometeo lo ha rubato a Zeus.

Parliamo di questo – del lago Turkana, degli artigiani che si sono tramandati per millenni come scheggiare una pietra o accendere un fuoco, del mito di Prometeo – perché il mito è ancora vivo dentro di noi: se qualcuno produce qualcosa di bello e di notevole (un romanzo, una scoperta scientifica, un certo risultato sportivo, qualunque cosa) ci riesce perché toccato da un dio, da una musa, dalla genetica.

Ogni tanto qualcuno ci scrive (o ce lo dice qualche studente), in infinite variazioni: ho provato a scrivere qualcosa, questo qualcosa fa schifo, ergo scrivere non fa per me, mi cospargo il capo di cenere e do fuoco al computer.

In vero, se scrivere ti pare semplice, o se scheggiare una pietra per farne una lama ti pare semplice, sappi che gli studenti di archeologia ci mettono – in media – 300 ore di pratica per fabbricare una pietra simile a quelle rinvenuta a Turkana.

Soltanto nella mitologia la creatività può passare per un furto o per un lampo di genio: la creatività, anche quella necessaria per vedere una lama dentro una pietra, richiede pratica e disposizione a incassare i fallimenti.

Chiunque porti a termine un’attività creativa lo fa attraverso strade complesse; e non lo fa da solo, o da sola: ma dentro una cultura di maestri/e, compagni e compagne.

Purtroppo il Romanticismo ha rinnovato il mito di Prometeo, diffondendo l’idea del “genio originale” che ha complicato la vita a generazioni di scrittori e scrittrici.

Il genio sarebbe colui che senza modelli né maestri – dunque vivendo fin dalla nascita in una grotta o in bunker – fa germogliare le proprie idee attingendo a un talento speciale e unico, di cui pochi sarebbero dotati.

Ovviamente in cosa consista di preciso questo talento, e a quali persone e per quali motivi venga dagli dèi concesso, non è mai stato chiarito.

Ecco, tu non credere a Prometeo, credi ai bravi artigiani del lago Turkana: noi non abbiamo rubato il fuoco, abbiamo imparato ad accenderlo e governarlo attraverso secoli e secoli di pratica (poi, cosa ci stiamo facendo con questo fuoco, è tutta un’altra storia).

Se ti va di scheggiare pietre insieme a noi: www.scuolascrivere.com

Libri e cani

Oggi in redazione si è verificata una corrispondenza che non ci aspettavamo tra cani e libri. No, non intendiamo scomodare quei libri “scritti da cani” quanto piuttosto ragionare in piccolo sulla corrispondenza di lessico e messaggio. 

Chiunque abbia un cane sa che, a una parola data, l’animale domestico risponde di conseguenza. Oltre ai termini universali utilizzati dagli educatori cinofili per impartire comandi ci sono delle parole chiave che i cuccioli imparano fin dai primi passi nella nuova casa e che entrano a far parte di un lessico famigliare condiviso. Non solo “seduto” e “zampa” o simili, quindi, ma anche “pappa”, “andiamo”, “bacino” e nomi che scatenano nell’interlocutore peloso diverse e personali reazioni.

E in questo lessico famigliare la precisione è fondamentale perché se al posto di “andiamo” il cane si sentisse dire “avviamoci”, “muoviamoci”, “partiamo”, non otterremmo alcuna reazione, o almeno non quella attesa. 

Ok? Ma cosa c’entrano i cani con i libri? Ecco… abbiamo ricevuto in commessa una nuova traduzione: un libro sul mondo animale. E in questo libro l’autrice proponeva definizioni proprie, neologismi, un suo lessico famigliare che intende allargare a tutti i suoi lettori. 

La proposta iniziale della traduttrice si è orientata verso una definizione nota, non verso un neologismo, ma poi abbiamo discusso della cosa ispirati dal contenuto del testo: proprio come un cane risponde a una parola cui dona un significato e quello soltanto, anche in saggistica il lessico specifico risponde a un significato soltanto.  

Forse il paragone è un po’ forzato, ma le fonti di ispirazione quando si traduce sono quasi sempre spiazzanti. Perciò l’abbiamo presa come è arrivata. E ci siamo detti che converrà mantenere il neologismo, pur cercando un’assonanza con un termine già noto. 

Dare valore alla corrispondenza precisa di senso di ogni parola vuol dire per chi traduce esplorare le alternative. Anche perché un termine può essere di per sé polisemico in una lingua e in un’altra no. Bisogna perciò definirne l’uso e la reazione del lettore in merito al significato. 

Lo spiega bene, con degli esempi, Mariateresa Fabbro: 

“Se la lingua di partenza dispone di termini diversi per nozioni diverse e ben distinte e la lingua d’arrivo dispone di un unico termine, la scelta traduttiva non pone alcun problema. Per fare un esempio, resistance, un ordine di grandezza, e resistor, che si riferisce al componente di cui si sfrutta la proprietà essenziale di offrire resistenza al passaggio della corrente, corrispondono all’italiano resistenza per cui una frase del tipo a resistor having a resistance of 500 ohms dovrà essere tradotta con una formula del tipo resistenza del valore di 500 ohms. Nei manuali tecnici, oggi si trova frequentemente anche resistore. Ma non in tutte le circostanze questo calco linguistico viene accettato. Un altro esempio: in inglese wire e thread indicano rispettivamente un filo metallico e un filo tessile e ambedue corrispondono all’italiano filo. In casi come questo, è sempre necessario qualificare il tipo di filo che, ad esempio nella descrizione di un cavo, è presente sia nell’anima metallica che nel rivestimento tessile del cavo. Sempre nel campo dei fili e dei cavi, gli americani usano jacket e sheath per indicare la guaina di un cavo, ma jacket è una guaina isolante e sheath una guaina metallica. I britannici usano soltanto il termine sheath. Ciò significa che nella traduzione italiana, l’indicazione della differenza si renderà necessaria là dove il contesto non sia sufficientemente chiaro al riguardo. Un ultimo esempio in questa categoria: spoolbobbin e coi/ corrispondono a significati diversi dell’italiano bobina.”

Tradurre saggistica non è semplice dal punto di vista delle scelte lessicali e non lo è anche per altri motivi, comunque legati alla ricezione del messaggio da parte dell’interlocutore. Proveremo a esplorarli in futuro. Nel frattempo, se ti va, ti aspettiamo sui banchi: www.scuolascrivere.com.

L’editor macellaio

La storia insegna che mentre solo alcuni scrittori lavorano in autonomia chiudendosi nelle proprie stanze, la maggior parte si avvale di editor – e diventa inevitabilmente dipendente da questa figura professionale che è un lettore speciale dell’opera, la prepara ad affrontare altri lettori, propone suggerimenti migliorativi sul testo. Eppure il rapporto tra scrittori ed editor è da sempre molto discusso.

La tradizione editoriale è per l’abnegazione degli editor. Il loro contributo non è particolarmente enfatizzato – un cenno nella prefazione o un ringraziamento da parte dell’autore al lancio del libro e nulla più – mentre nell’immaginario comune, gli editor sono fantasmi, condivisori occulti dei segreti degli scrittori, cospiratori al trono. E tantissimi sono gli scrittori che hanno associato all’editing delle proprie opere immagini non proprio positive.

Henry James lo accostava al lavoro del macellaio, D.H. Lawrence al simbolico taglio del proprio naso con un paio di forbici, come se l’opera fosse una sorta di appendice fisica dell’autore (in effetti può essere considerata tale).

Pochi però hanno parlato di questa fase come qualcosa di positivo, in grado di stimolare la creatività dello scrittore e far crescere ciò che in potenza già esisteva dentro di lui.

Quando si tratta del rapporto tra editor e scrittore, se ne parla solo nel caso in cui l’esperienza sia stata tutto sommato negativa, perché il primo ha prevalso, sbagliando, sul secondo, in maniera irrevocabile. Pensiamo a Gordon Lish e Raymond Carver.

Dietro a queste immagini ostili c’è il mito romantico dello scrittore come “genio solitario” che scrive le proprie opere sull’onda di un impeto creativo improvviso e incorruttibile. L’editor diviene così una figura aliena, distruttiva del lavoro originario, un sicario con la matita rossa. È vero che alcuni editor si sono lasciati prendere la mano e hanno corretto eccessivamente i testi, ma c’è anche chi esegue il proprio lavoro in maniera rispettosa e acuta, trovando un equilibrio.

Un primo passo per comprendere il lavoro dell’editor e dell’autore nella fase di revisione di un testo può essere leggere un commento di F. S. Fitzgerald, autore del Grande Gatsby, scrittore che ha sempre lavorato con solerzia di riscrittura.

[…] Qualcuno che citerò con molta imprecisione ha detto una volta: «Uno scrittore che sia riuscito a calare il proprio sguardo ancor più in profondità, nella propria anima o in quella degli altri, scoprendovi, grazie al suo talento, cose che nessuno aveva mai visto o osato raccontare, ha ampliato l’orizzonte della vita umana». Ecco perché un giovane scrittore, una volta giunto al bivio di ciò che è da dire e ciò che è da tacere riguardo al sentimento, è tentato di lasciarsi guidare verso quanto è conosciuto, ammirato e comunemente accettato, poiché sente dentro di sé una voce che gli sussurra: “Nessuno sarà toccato da questa emozione, a nessuno interesserà questa azione irrilevante: sono cose mie, non hanno alcun valore universale; forse non hanno nemmeno senso”. Ma se il talento dello scrittore è autentico, o se la fortuna è con lui (a seconda dei punti di vista), un’altra voce allo stesso bivio lo incita a registrare quelle cose apparentemente insolite e insignificanti; in esse, e in null’altro, risiede il suo stile, la sua personalità, insomma, tutta la sua natura di artista.
Ciò che ha pensato di buttar via o, troppo spesso, ciò che ha già buttato via era l’unica buona qualità concessagli.
Gertrude Stein stava cercando di esprimere un pensiero analogo quando – parlando della vita più che della letteratura – disse che lottiamo contro la maggior parte delle nostre qualità di spicco finché non arriviamo verso i quarant’anni, e allora, troppo tardi, scopriamo che esse costituivano la nostra reale personalità. Erano la parte più profonda del nostro io, che avremmo dovuto accarezzare e nutrire. D’altra parte quanto precede è inesatto, e si potrebbe essere fuorviati da tutto ciò che ho detto, nello stesso senso in cui lo sono stati Saroyan e il compianto Tom Wolfe pensando che la scrittura debba essere la coltivazione di ogni erbaccia trovata in giardino. È a questo punto che interviene il talento, a distinguere tra i fiori comuni che ciascuno conosce e che non sono particolarmente attraenti, le erbacce ribelli e ingannevoli, e quel minuscolo, timido, spesso invisibile fiore nascosto in un angolo: quel fiore, coltivato alla Burbank, è tutto ciò che sarà valsa la pena di far crescere, sia che rimanga piccino sia che raggiunga l’altezza di una quercia.

Per approfondire il lavoro dell’editor, e ancor di più la relazione di F. S. Fitzgerald con il suo editor, vi consigliamo la lettura di Max Perkins. L’editor dei geni di Andrew Scott Berg (Elliot, 2013) e la visione del film Genius.

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CHE COSA SONO I COOKIE?

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QUANTI TIPI DI COOKIE ESISTONO?

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cookie di funzionalità, che permettono all’utente la navigazione in funzione di una serie di criteri selezionati (ad esempio, la lingua, i prodotti selezionati per l’acquisto) al fine di migliorare il servizio reso allo stesso.

I cookie di profilazione sono più sofisticati. Questi cookie hanno il compito di profilare l’utente e vengono utilizzati al fine di inviare messaggi pubblicitari in linea con le preferenze manifestate dallo stesso durante la sua navigazione.

I cookie possono, ancora, essere classificati come:

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cookie persistenti, i quali – a differenza di quelli di sessione – rimangono all’interno del browser per un determinato periodo di tempo. Sono utilizzati, ad esempio, per riconoscere il dispositivo che si collega al sito agevolando le operazioni di autenticazione per l’utente.

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